Mi tratta male, perché non lo lascio?
Troppe donne, intrappolate in rapporti dolorosi avvitati su se stessi, non riescono a dire basta e a liberarsi: ecco come aiutarsi a fare i passi giusti
Una lettrice di Riza Psicosomatica ci scrive: “Se guardo le cose con lucidità, se metto insieme tutti i pezzi di questi dieci anni insieme, so che l’unica soluzione è lasciare il mio compagno. Ma non ci riesco. Ogni volta che, dopo un ennesimo litigio, mi allontano, sento un’ansia insopportabile e quando lui ci riprova mi trova lì, a credere che, come dice lui, divisi non possiamo stare. Perché è così difficile chiudere? Nessuno sa buttarmi giù come lui, nessuno ha lo stesso potere di rovinarmi un momento bello. Le mie amiche non si capacitano del mio comportamento; con loro sono un’altra, rido, mi appassiono alle cose e anche nel lavoro sono stimata e apprezzata; eppure constatare che so anche essere così non è sufficiente a darmi la spinta per lasciarlo. Perché stare con lui, ed è questo l’aspetto più inquietante, se da un lato mi sfibra dentro, dall’altro mi fa sentire protetta: lo so che è assurdo, ma è così. Come può lo stesso uomo che mi mortifica ogni giorno darmi questo senso di tranquillità?”.
Sono più numerose di quanto si creda le donne che, come la nostra amica lettrice, continuano a stare con uomini che “le buttano giù”. Contrariamente a quel che si può pensare non sono donne deboli o in difficoltà, ma spesso, come lei, professioniste di successo, che affiancano a una vita pubblica brillante una vita privata di tutt’altro colore, dove, smessi i panni della vincente, indossano quelli della vittima di un partner che le mortifica, spegne i loro entusiasmi, le fa sentire meno di niente. Che cosa le tiene incollate all’aggressore? Forse il fatto che nelle relazioni spesso proiettiamo sull’altro lati di noi che non ci concediamo di vivere, come la debolezza o il senso di dipendenza, che in ambito professionale non trovano mai spazio. Esser “buttate giù” e andare in pezzi diventa allora la compensazione alla fatica di dover invece essere sempre… tutte d’un pezzo!
L’illusione di una protezione fasulla
Quello che però risulta più difficile da comprendere è che proprio compagni così diventino una sorta di rifugio. La poetessa e scrittrice Annelisa Alleva ne dà in un suo verso questa paradossale spiegazione: “Sì, è vero, cerco in te scampo da te, visto che incantare il boia è il modo più semplice e diretto per ottenere la grazia”. Parole che fotografano la dinamica malata che alimenta rapporti nei quali colui che aggredisce e colui che protegge sono la stessa persona. Ci si abitua ad esser trattate male e per paradosso diventa ancor più doloroso svegliarsi. Ciò che la nostra lettrice definisce “senso di tranquillità” è proprio il senso di ottundimento in cui questa relazione l’ha sprofondata e che, se guardasse bene, invece di ritemprare spossa ancora di più, ogni giorno di più…
Accettare il dolore per superarlo
Non chiamarla “tranquillità”, ma torpore e oblio di sé, può essere il primo passo da fare. Il secondo è accettare di attraversare il dolore del risveglio, un dolore uguale a quello che si prova negli occhi esposti d’improvviso alla luce dopo un lungo buio, nella gamba rimessa in movimento dopo mesi di immobilità, nella gola arrochita da troppo silenzio in cui spinge per uscire la parola che serve, augurandosi che quella parola, fresca e urgente di verità, sia “basta!”. Perché, tornando al verso citato, ottenere la grazia per davvero vuol dire non soffrire più. Il dolore del risveglio, come quello del parto, si dimentica presto. Quando si esce da questa gabbia in cui ci siamo chiuse da sole capiamo subito che ne è valsa davvero la pena!